Il bambino è grasso? Meglio cambiare sport…

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Come faccio a fargli capire che non può giocare con gli altri senza offenderlo??”
(Domanda posta da un istruttore sportivo alla psicologa dello sport
in merito ad un bambino di 7 anni).

Iniziamo questo articolo riportando questo ricordo agghiacciante di esperienza professionale vissuta per affrontare un tema che in questi giorni, purtroppo per fatti di cronaca bruttissimi, sta tornando a galla: “la discriminazione sulla base della costituzione fisica”. La risposta che venne data a questa persona (scarsamente qualificata ma tuttavia assegnata ad un gruppo di bambini che stavano scoprendo il mondo dello sport!) fu: “Il tuo ruolo non è quello di fargli capire che ha dei limiti ma insegnargli come superarli e far si che possa trarre il massimo piacere dallo sport che ha scelto di iniziare.”  Cerchiamo dunque di capire il filo sottile che lega obesità e sport, passando attraverso la psicologia sportiva!

In uno dei primi corsi di formazione allenatori a cui partecipai nel ruolo di docente per l’area psicologica ci fu un intervento iniziale di Bettega che ricordò a tutti: “Di tutti i bambini che seguirete forse uno diventerà un campione, molti saranno sportivi (e non necessariamente faranno calcio) ma tutti saranno uomini. Questa è la vostra responsabilità!” . E credo che questa frase sia valsa più dell’intero corso di formazione!

Il problema dell’obesità infantile è un problema noto e importantissimo che si combatte anche attraverso l’attività fisico-motoria. Tuttavia la realtà è che alcune società sportive  (che dovrebbero lavorare per l’avviamento allo sport e invece puntano a vincere i mini-tornei)  preferiscono mandare i loro ragazzini “rotondetti” a fare i “comodini” (per usare un termine che chi corre sui campi verdi conosce bene!) in altre realtà… Perché?? Perchè aldilà di belle parole: “E’ assolutamente necessario che a questo bambino (e famiglie!!!) venga insegnato che è importante curare il proprio corpo, seguire un’alimentazione corretta e praticare sport regolarmente”… Purtroppo ancora oggi il non detto è: “Però se lo iscrivessero in palestra o in uno sport dove la sua performance non condiziona la performance di nessun altro, così che gli altri ragazzi possano continuare a crescere e migliorarsi senza essere rallentati!?!” E poco importa se al bambino “cicciottello” piace tanto fare danza, calcio, pallavolo o altro. “Magari potrebbe provare con il nuoto??!!” (purtroppo le frasi in corsivo sono citazioni di dialoghi realmente ascoltati!!)

A questo punto ci saranno molti di voi scandalizzati che cercheranno di giustificare con “ma sono dei casi isolati”, ebbene vi possiamo dire… neanche tanto… e lo diciamo sulla base dei ragazzini (anche sotto i 12 anni) che vengono da noi psicologi dello sport per chiedere un aiuto in merito ad alcune difficoltà che trovano nello svolgere la loro pratica sportiva… e alla fine si scopre che alla base di tutto il problema c’è stata una totale disattenzione da parte di chi si sarebbe dovuto occupare del loro inserimento nel mondo dello sport, che li ha portati a sentirsi inadatti prima allo sport praticato, poi allo sport in generale e poi magari anche a tanto altro. Per fortuna non tutte le realtà sono così (e ne conosciamo di veramente eccezionali… per fortuna dei nostri piccoli amanti dello sport!!) ma questo sicuramente è un problema che come psicologi sportivi ci troviamo ad affrontare quando lavoriamo nella formazione degli allenatori sportivi in età evolutiva. E non ci stancheremo mai di ricordare qualcosa che è stato scritto molti anni fa da un grande studioso dello sviluppo infantile, Erik Erikson.

La teoria evolutiva di Erikson sullo sviluppo psicosociale è un modello che descrive lo sviluppo dell’identità delle persone dalla nascita fino alla vecchiaia. Prendendo spunto dal modello freudiano, Erikson ha voluto allargare il focus e includere nel campo dello sviluppo umano non solo la crescita emotiva interna della persona, ma anche tutto ciò che riguarda le relazioni sociali che assumono un valore importante poiché possono influenzare o essere influenzate dallo sviluppo della persona. Il lavoro di Erikson si è basato sull’individuazione di 8 fasi di vita che possono essere contraddistinti da uno sviluppo positivo e funzionale per la crescita dell’individuo oppure da uno negativo e che quindi potrebbe portare problemi nel passaggio alla fase successiva. Essendo la persona immersa in un contesto sociale in ogni fase della propria vita, tutte le variabili di questo contesto diventano fondamentali per il suo sviluppo. Lo sport è sicuramente una variabile che, all’interno della vita di una persona, assume un’importanza da non sottovalutare.

Dall’avvicinamento del bambino allo sport fino a quando non raggiunge la prima età adulta, ci sono due fasi indicate dalla teoria Eriksoniana:

 6 anni – pubertà: industriosità opposta ad inferiorità:
In questa fase della vita il bambino entra nella “industriale” della propria vita; è una fase in cui il bambino comincia a voler entrare nel mondo della conoscenza e del lavoro apprendendo, non solo a scuola, a sfruttare le conoscenze apprese per “produrre”. Il corretto sviluppo all’interno di questa fase porterà il bambino ad avere un senso di industiosità e di auto-efficacia, al contrario, uno sviluppo negativo potrebbe portare il bambino ad un senso di inadeguatezza ed inferiorità.
Il rapporto del bambino in questa fase all’interno di uno sport è ovviamente fondamentale per permettergli di poterla superare positivamente. Il riuscire ad imparare a padroneggiare i primi movimenti fondamentali del proprio sport porterà il bambino ad acquisire un senso di fiducia in se stesso. Assorbendo gli insegnamenti dell’allenatore, il ragazzino avrà bisogno di testarsi e mettere in pratica ciò che impara. E’ ovviamente una fase delicata perché il non riuscire porterebbe il bambino ad identificarsi come inferiore agli altri portando senso di inadeguatezza e sentimento di non servire a niente.
Quello che è fondamentale in questa fase è quindi aiutare il bambino nel cercare di fargli mettere in pratica gesti e movimenti supportandolo con insegnamenti e feedback positivi, orientati alla prestazione e con correzioni finalizzate ad aiutarlo ad incrementare la fiducia nelle sue capacità.

 Adolescenza: identità e rifiuto opposti a dispersione di identità
E’ risaputo che l’adolescenza sia una delle fasi più difficili nello sviluppo di una persona: cambiamenti fisici, mentali, sociali portano il ragazzino a passare in un periodo di crisi in cui l’identità che aveva prima si disgrega per essere ricostruita ampliando il proprio modo di conoscersi. Mentre nelle fasi precedenti l’identità era perlopiù costruita da quello che il bambino faceva in pratica, in questa fase il ragazzo diventa attore principale nella propria costruzione della personalità. Uno sviluppo positivo in questa fase è fondamentale perché l’identità che si costruisce durante questo periodo, subirà sicuramente altri cambiamenti, ma diventerà un nucleo di base per tutte le fasi del successivo sviluppo.
Un risvolto negativo di questa fase potrebbe portare il ragazzo ad una dispersione di identità, cioè ad una frammentazione della propria personalità nei diversi contesti della sua vita senza un nucleo unico che funge da collante. Nello sport il ragazzo può riuscire a trovare le risorse necessarie per superare questa fase. All’interno di uno sport di squadra o individuale (allenandosi con suoi coetanei) il ragazzo impara molto più facilmente ad identificarsi con il proprio gruppo e a costruire la sua identità di sé come persona positiva, accettata dal gruppo ed assumendo il ruolo di “sportivo” all’interno della sua personalità. Perché questo avvenga è fondamentale che il gruppo in cui il ragazzo si identifichi sia positivo e permetta questo tipo di costruzione identitaria. Un’identificazione positiva avrà altresì conseguenze positive sullo sport stesso, infatti il ragazzo sarà motivato nel riuscire a raggiungere i propri obiettivi essendo essi legati alla costruzione di sé. Un fallimento di questa fase porterebbe il ragazzo ad una dispersione dell’identità, cioè a non riuscire a creare un’immagine di sé unita. Il rischio, nello sport, è quello di non riuscire a reggere la sua identificazione come “sportivo” e quindi di perdere la motivazione e la voglia di portare avanti questo aspetto della sua vita.

Abbiamo voluto portare questa testimonianza tra teoria e pratica sportiva in occasione dell’Obesity Day 2014 sperando che si diffonda un’attenzione maggiore a questo aspetto anche nel mondo sportivo dove ci sono tantissimi educatori, istruttori e allenatori che hanno sviluppato una grande attenzione psicologica ma purtroppo… c’è sempre qualcuno che riesce a stupirci di come sia possibile che sia stato messo a contatto con i bambini!!!