Ipnosi e Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC): un’integrazione possibile? – prima parte

B-Skilled: psicologia dello sport e della performance Ipnosi e Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC): un'integrazione possibile? - prima parte terapia cognitivo comportamentale TCC sport psicoterapia psicologia ipnoterapia ipnositerapia ipnosi e sport ipnosi gladys bounous Nella pratica sportiva, e non solo, utilizziamo l’ipnosi come tecnica per l’incremento delle performance. Questo spesso induce le persone a dubitare della scientificità del nostro approccio. Gli articoli che seguiranno hanno lo scopo di raccontare qualcosa in più circa la scientificità dell’ipnosi e sulla sua integrazione con metodologie operative “evidence based” come l’approccio cognitivo-comporamentale. In questo primo articolo facciamo un tuffo nella storia dell’ipnosi e TCC per scoprirne in punti di contatto…

Cosa intendiamo per ipnoterapia cognitivo-comportamentale? Questo termine viene spesso utilizzato in riferimento all’integrazione dell’ipnosi con la terapia cognitivo-comportamentale. Tuttavia, come vedremo, può significare anche una riconcettualizzazione cognitiva-comportamentale dell’ipnosi, attraverso una spiegazione dei processi psicologici coinvolti nella “trance ipnotica”. Secondo questa concezione l’ipnoterapia è innanzitutto una terapia della “suggestione immaginativa”, che è utilizzata per stimolare un’immaginazione cosciente e profonda a sufficienza per generare un cambiamento terapeutico. Esistono altri modelli di riferimento teorici per spiegare l’ipnosi: quello di matrice psicodinamica o quello ericksoniano per esempio. Tuttavia il nostro orientamento è cognitivo-comportamentale poichè è l’approccio che, ad oggi, ha dimostrato le maggiori evidenze scientifiche di efficacia.

Ipnosi e TCC: una storia in comune
L’approccio cognitivo-comportamentale all’ipnosi riprende la definizione data da Braid, nel 1841-42, che viene considerato come il fondatore dell’ipnosi moderna e primo utilizzatore del termine ipnosi, come abbreviazione del termine “neuro-ipnosi”. La visione di Braid all’ipnosi può essere così sintetizzata:

  • Egli considera l’ipnosi con una forma di concentrazione conscia e immaginazione attiva (al contrario del concetto psicodinamico di mente inconscia);
  •  Egli non parlò mai di “trance” non credendo che le tecniche ipnotiche potessero generare uno stato particolare di coscienza, in contrapposizione con i sostenitori dell’ipnosi come stato alterato;
  • parlò di suggestioni proposte dall’ipnotista ma le considerava primariamente una forma di autosuggestione  e il ruolo dell’ipnotista era semplicemente quello di guidare la persona a focalizzare l’attenzione su un’idea dominante;
  • rifiutò sempre il termine “ipnotismo” come forma abbreviata di “neuro-ipnotismo”, perché riportava al concetto di sonno che nulla ha a che vedere con il concetto di ipnosi;
  •  adottò sempre un approccio scientifico ed empirico per sviluppare la sua teoria e la sua pratica.

Dalla concettualizzazione di Braid deduciamo che: “l’ipnosi è un processo di focalizzazione dell’attenzione su delle idee capaci di attivare dei riflessi ideomotori (o ideosensori)”.  Traduciamo  questa frase in termini più cognitivi-comportamentali: “ l’ipnosi  è un processo di focalizzazione dell’attenzione su uno dei pensieri in grado di evocare dei comportamenti specifici, overt (manifesti) e covert (non manifesti o interni)”.

Molti dei grandi nomi della terapia cognitivo-comportamentale hanno utilizzato nella loro pratica, almeno all’inizio tecniche ipnotiche: basti ricordare Josep Wolpe, l’autore che ha maggiormente comportamentale, originariamente descrisse questa tecnica come “desensibilizzazione ipnotica” (Wolpe, 1958, p.203; Wolpe 1954).
In maniera simile, Andrew Salter,  uno dei co-fondatori  della terapia comportamentale e uno dei principali  pionieri dei training sull’assertività fu un ipnotista. Salter ci parlò infatti dell’ipnosi come della “terapia del riflesso condizionato”, sulla base delle teorie di Pavlov e Hull (Salter 1949). Molte altre tecniche  che fanno parte del patrimonio della terapia comportamentale sono state precedute da tecniche simili, chiamate in modo diverso, utilizzate dagli ipnotisti dell’epoca. Recentemente il ricercatore Irving Kirsch  ha enfatizzato come molte tecniche immaginative che si ritrovano nella terapia comportamentale e nella terapia cognitivo-comportamentale (desensibilizzazione sistematica, tecniche avversive e modellamento immaginativo)  ricordano delle tipiche tecniche ipnotiche, senza menzionare la parola “ipnosi” (Kirsch, 1999, p. 217).
Ma facendo un passo ancora indietro non possiamo non ricordare l’enorme contributo all’interazione tra ipnosi e terapia comportamentale portato da Pavlov  e dalla scuola russa, in contrapposizione all’uso dell’ipnosi che venne fatto dagli psicoanalisti in America e in Europa occidentale. I ricercatori sovietici proposero delle teorie sull’ipnosi basate sul concetto di “inibizione corticale” proposto da Pavlov. In contrapposizione con l’utilizzo psicodinamico dell’ipnosi, i ricercatori sovietici proposero una terapia di condizionamento ipnotico breve  supportato da numerose prove cliniche sperimentali (Platonov, 1959).
Anche Ellis,  nella sua adolescenza, studiò le tecniche di autosuggestione di Couè che sicuramente ebbero influenze sullo sviluppo futuro del suo approccio terapeutico.
Il primo grande programma sperimentale di ricerca ipnotica fu condotto dallo psicologo comportamentista Clark L. Hull  e  riassunto nel suo saggio “Hypnosis and Suggestibility: an experimental approach” (1933). Hull concluse dopo numerosi studi che non ci fosse distinzione tra  un’induzione ipnotica e una suggestione ordinaria, fatta eccezione per il fatto che le induzioni ipnotiche sembravano essere seguite maggiormente con un relativo incremento della suggestionabilità. Sembrava dunque che qualsiasi cosa che possa essere evocata in ipnosi possa essere manifestata anche senza ipnosi: regressione, amnesia, allucinazioni, eccetera. In altre parole si arrivò a dire che lo stato di ipnosi non è nulla di speciale, drammatico o anormale come spesso si crede nella concezione popolare.

Il primo autore ad utilizzare esplicitamente il termine cognitivo-comportamentale in relazione con l’ipnosi fu Barber  nel suo lavoro del 1974.  Basandosi sulle ricerche scientifiche, Barber e i suoi collaboratori, ridefinirono l’ipnosi in termini di un particolare “cognitive set” (o mental set) molto simile agli ordinari processi cognitivi e comportamentali. Questo “set cognitivo” consiste in un insieme di pensieri, immagini, aspettative, predisposizione all’ipnosi, motivazione, coinvolgimento, fantasie, orientamento al risultato abbinati a particolari sensazioni fisiche, che possiamo definire “stato mentale di ipnosi”.

Questa definizione è supportata da diversi studi che ci dicono che l’induzione ipnotica tende semplicemente ad aumentare la responsabilità alle  suggestioni che vengono proposte (Barber, Spanos e Chaves, 1974).  Anche l’avvento delle tecniche di neuroimaging  non è servito a dimostrare che il cervello in stato di ipnosi raggiunga uno “stato unitario”  ma si è dimostrato che differenti pattern di attività neurologica si osservano differenti tipi di suggestione (Raiville, 2000).  Nonostante queste conclusioni Barber continuò ad utilizzare tecniche ipnotiche perché riscontrava comunque dei benefici nei suoi pazienti, legate soprattutto alle aspettative positive che le persone hanno rispetto questo tipo di procedura.
Seguendo lo schema di Barber la riconcettualizzazione cognitiva dell’ipnosi potrebbe essere così sintetizzata:

ANTECEDENTE

COMPORTAMENTO

CONSEGUENZA

Induzione ipnotica e suggestione

Sviluppo di un set cognitivo o Hypnotic mind set

Immaginazione attiva e consapevole

Risposte ipnotiche

In accordo con i teorici cognitivi-comportamentali, il soggetto sottoposto di ipnosi non risponde meccanicamente alla suggestione ma  attiva un processo creativo di problem solving  in immaginazione.

Da questa breve rassegna storica non c’è dubbio che l’ipnosi e la terapia cognitivo-comportamentale siano legate fra di loro più di quanto lo si voglia ammettere. Le tecniche ipnotiche possono essere considerate precursori di alcune tecniche cognitive-comportamentali e l’ipnotismo (come insieme di tecniche) può inserirsi nell’approccio cognitivo-comportamentale rispondendo adeguatamente ai criteri proposti da Beck quando parò della terapia cognitiva come “un approccio eclettico in cui possono essere inserite diverse tecniche che abbiano però dei requisiti comuni” (Alford e Beck, 1997, p. 91). Questi criteri sono:

  • Le tecniche devono essere coerenti con i principi della terapia cognitiva;
  •  l’intervento terapeutico deve derivare da un’adeguata concettualizzazione del caso;
  •  il trattamento deve avvenire in un contesto di collaborazione e di scoperta guidata;
  •  ogni sessione deve essere monitorata in termini di avanzamento dei progressi.

Le tecniche ipnotiche rispondono positivamente a questi criteri e inoltre vi sono altre ragioni per integrare l’ipnosi nella TCC, come ci suggeriscono numerosi autori:

  • molti clienti hanno alte aspettative rispetto a questa tecnica, percependo il “potere” dell’ipnosi;
  •  le tecniche ipnotiche sono capaci di indurre un  rilassamento profondo;
  •  l’ipnosi è in grado di facilitare la dissociazione (detachment)  particolarmente utile in alcune condizioni cliniche, ad esempio il controllo del dolore;
  •  l’ipnosi frequentemente riesce indurre una maggior vividezza di dettagli nelle immagini mentali che può potenziare  gli effetti delle tecniche di visualizzazione, comprese le termiche di esposizione in immaginazione;
  •  l’ipnosi sembra facilitare l’accesso all’esperienza emozionale, soprattutto nelle sessioni di regressione e abreazione, che possono potenziare gli effetti degli interventi terapeutici basati sul concetto di esposizione prolungata;
  •  i training di autosuggestione e autoipnosi offrono ai clienti la possibilità di allenare strategie di coping  applicabili in una grande varietà di situazioni;
  •  gli ipnoterapeuti,  grazie al loro complesso bagaglio di tecniche di immaginazione e tecniche verbali, hanno da sempre sviluppato la capacità di registrare tracce audio e possono essere utilizzate come supplemento alle sessioni di lavoro individuale.

Per ritornare alla domanda iniziale di questo articolo: “è possibile un’integrazione efficace tra ipnosi e CBT?”. Per noi, e non soltanto per noi, senza dubbio la risposta è: “Si”.

 Bibliografia:

  • Robertson D., “The practice of cognitive-behavioural hypnotherapy. A manual for Evidece-based Clinical aHypnosis”, Karnac, 2013
  • Braid J, “The discovery of hypnosis: the comple writing of James Braid, the father of hypnotherapy”, The Hational Council for hypnotherapy (NCH), 1843
  • Wolpe J., “Psychotherapy by reciprocal inhibition”, Standford University Press, 1958
  • Salter a., “Conditioned reflex therapy”, Wellnes Institue Ltd, 1949
  • Kirsch I., Clinical hypnosis as a nondeceptive placebo in Kirsch I, Capafons A, Cardena-Buelana E “Clinical Hypnosis e Self-regulation: cognitive behavioural perspective”, Washington APA, 1999
  • Hull, CL, “Hypnosis e suggestibility: an experitmental approach”, Crown House Publishing, 1933
  • Platonov K, “The word as a physiological and therapeutic factor: the theory and practice of psychotherapy according to IP Pavlov”, Foreing Language publishing house, 1959
  • Barber TX, Spanos NP, Chaves JF, “Hypnotism, imagintation e Human Potentialitie,”, Pergamon Press, 1974
  • Alford BA, Beck AT, “The integrative power of cognitive therapy”, Guilford, 1997
  • Chapman RA, “The clinical use of hypnosis in cognitive behaviour therapy”, Springer Publishing Company, 2006
  • Lynn SJ, Rhue JW, “Theories of hypnosis”, the guilford press, 1991
  • Lynn SJ, Kirsch I, “Essential of Clinicaly Hypnosis. An evidence based approach”, American Psychological Association, 2006

 

Articolo tradotto e sintetizzato da Gladys Bounous (psicologa, ipnologa, specializzanda in terapia cognitivo-comportamentale)